Regia: Maura Delpero
Produzione: Italia, Francia, Belgio
Anno: 2024
Quante volte ho sentito parlar di campagna
Alla gente che vive in città
E che loda la vita bucolica
Però in campagna poi mica ci sta
[La Ghigliottina – Brunori Sas]
Se Vermiglio fosse un colore sarebbe quello sbagliato. Le tonalità esangui che ammantano il paesino montano dell’Alto Adige nel 1944 non prevedono tali sfumature ma sono sovrastate da una grigioazzurritudine polverosa molto chic ma anche esagerata nella sua pulizia da interior design. Acclamato, premiato, visto (il box office gli dà ragione) Vermiglio si colloca nella scia di C’è ancora domani. Un passato edulcorato dove le storie scivolano sulla superficie delle cose assumendo su di sé la patina di un nostalgico ritorno ad una sorta di arcadia dove le cose – anche quando non andavano bene – erano comunque meglio dell’oggi. In un racconto dialettico che contrappone un presente ostile a un tempo sospeso in cui la guerra è un fuori campo, l’omicidio del marito bigamo è un fuoricampo. Tutto il brutto è dietro un tendaggio, uno spesso drappeggio di azioni e situazioni che si devono omettere. Ecco l’omissis è il peccato più grande di un film che sicuramente nasce sotto la stella delle migliori intenzioni, sotto la convinzione che il cinema debba essere una carrellata in successione di ellissi permanenti. Piccoli bozzetti che fanno andare avanti la storia come le figurine dei fotoromanzi.
La regista ha sicuramente la mano ferma nel perseguire la sua idea di cinema e la sua storia ma, forse, si piega quanto consapevolmente o meno all’innamoramento verso un’idea di nitore, di estetizzante coreografia dei gesti. L’iconicità di alcune scene – Ada/Rachele Potrich lunga distesa prona nel granaio – potente nella sua significanza, è come disinnescata dal susseguirsi di momenti sempre troppo puliti, nel senso anche letterale del termine. Quasi che la troupe si fosse fatta scrupolo di non sporcare e mettere in disordine troppo il set. Manca, la polvere, la terra, gli escrementi, gli agenti atmosferici, la sporcizia inevitabile di una casa contadina. Manca il senso climatico di un paese in un posto ostile. Manca il freddo che penetra nelle ossa. L’unico agente “disturbante” del quadretto è rappresentato dal personaggio della svitata, ribelle, interpretata da Carlotta Gamba (sempre in parte anche) che però assume un imprecisato ruolo di macchietta giusto per dare un po’ di colore (!).
Maura Delpero confeziona un film immacolato, intriso di buoni sentimenti e lastricato di buone intenzioni. Onora intimamente il padre recentemente scomparso omaggiando la sua terra d’origine. Piace per la sua mitezza di sguardo, per la rassicurante certezza che, nonostante tutto, con un po’ di buona volontà, le cose si rimettono a posto. Navighiamo su un mare leggermente increspato dalla brezza, qualche scossone ogni tanto, ma basta aggrapparsi. Siamo schizzati dagli spruzzi, ma gli abiti si asciugheranno poi.
Questo film pone degli interrogativi a cui in parte provo a dare risposta ma che mi lascia comunque moltissimi dubbi.
Davvero dobbiamo costringerci a pensare che l’anticonformismo, il senso di rivolta al patriarcato stia nell’andare sfrontatamente in bicicletta con la faccia tra l’imbronciato e il chissenefrega al cui confronto vale di più la Monella di Tinto Brass? Davvero pensiamo che la moglie (siciliana) tradita abbia compiuto un gesto esemplare freddando il fedifrago bigamo al suo ritorno dal fronte? Davvero pensiamo che Cesare/Tommaso Ragno, il pater familias sia il cattivo maestro della situazione che nemmeno predica bene e per di più razzola malissimo involgarendo il sublime delle Quattro Stagioni vivaldiane con l’album di cartoline di nudi femminili segretamente nascosto a chiave, origine di un fugace e pudico sguardo di piacere coltivando un immaginario mentre nel reale ingravida la moglie a ripetizione non regalandole mai manco un mazzo di fiori? Davvero il femminismo ha necessità di essere rappresentato da un concentrato di stereotipi e di mesta retorica che, come un dado, insaporiscono e riscaldano il brodino del buoncontento?
Però questo tempo nostro esalta film di questo tipo. Vale lo stesso discorso per il già citato C’è ancora domani o per L’amica geniale, la serie tratta dai romanzi di Elena Ferrante, alla cui messa in scena grigioazzurraopaca Vermiglio è assai debitore.
Laddove Ermanno Olmi, nella fattispecie ne L’albero degli zoccoli, rappresentava una cultura contadina che andava scomparendo, in un momento di trapasso, avendo lui tracciato ben chiaramente e puntualmente i nuovi orizzonti dell’industrializzazione, dell’inurbazione e della conseguente mutazione antropologica di una popolazione chiamata per convenzione italiana, qui pare esserci un ritratto ad olio tratto da una vecchia cartolina d’epoca al corso di riproduzione dal vero.
La severità di sguardo è solo conseguenza di un rammarico e di un qual moto di rabbia indolente nel constatare quanto invece poco – e talvolta male – vengano accolti altri prodotti cinematografici. Più rischiosi, meno benevolenti, indulgenti, carini. Più scomodi e cattivi. Ma, a mio parere, innegabilmente più veri.