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[SPECIALE] LA ZONA D’INTERESSE | Le tenebre oltre il muro

Titolo originale: The Zone of Interest
Regia: Jonathan Glazer
Anno: 2023
Produzione: Regno Unito, Polonia

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva

Il quarto lavoro di Jonathan Glazer, tratto dall’omonimo romanzo di Martin Amis, è uno dei film più attesi della prima parte dell’anno e sicuramente una delle opere di cui si è sentito parlare di più ancor prima della sua uscita nelle sale. Grande attesa fra i cinefili, quindi, a causa dell’unanime apprezzamento della critica per il precedente Under the Skin (2013), nonostante questo sia stato – a dispetto della presenza di Scarlett Johansson come protagonista – un completo fallimento dal punto di vista degli incassi, in patria e all’estero. In questo caso, invece, l’Olocausto e le vicende vissute dagli ebrei durante il Nazismo, rappresentano temi di sicuro interesse per il pubblico – nonostante la loro delicatezza – come testimoniato dall’importanza e dal successo di film che negli ultimi trent’anni hanno trattato la questione ricorrendo a ogni possibile declinazione e tipo di registro immaginabile, si pensi – per citarne alcuni – a Jojo Rabbit (2019), Ogni cosa è illuminata (2005), Il pianista (2002), Train de vie (1998) e La vita è bella (1997).

Non hanno precedenti, però, lo stile e la modalità scelti dal regista per raccontare, con sguardo quasi da entomologo, la vita di Rudolf Höss – costruttore e primo comandante del campo di Auschwitz-Birkenau –, di sua moglie e dei loro cinque figli durante la permanenza nel campo di sterminio. Un campo che per tutta la durata del film non vediamo mai direttamente e la cui presenza è solo accennata dalla visione della parte alta di alcuni edifici e delle torrette, nonché dai suoni che da lì provengono: le urla dei soldati, il crepitio dei fucili o dei mitra e un cupo basso continuo ad esprimere – forse – l’incessante operosità dei forni crematori, confermata dal fumo che sale lento in cielo. Rumori in lontananza, comunque.

Il film inizia con una lunga e insistente scena con lo schermo nero, che porta all’attenzione dello spettatore solo pochi suoni e nulla più. Una tanto esplicita quanto audace visione dell’abisso – dell’Olocausto e delle anime che lo hanno concepito e realizzato – che in quanto indescrivibile non può essere in alcun modo reso mediante immagini. E, quindi, la scelta di rappresentare solo ciò che più di ogni altra cosa lambiva in modo incongruente e osceno il confine del campo: la casa di Hedwig e Rudolf Höss. Una casa linda e ben curata, con un grande giardino pieno di vegetazione e fiori variopinti, nel quale la famiglia trascorre ore serene fra piante e fiori e la madre – in visita alla figlia – si compiace con Hedwig per “l’essere caduta in piedi” a partire – evidentemente – da umili origini rese anche visivamente dai modi e dalla camminata poco raffinata delle due donne. Madre e figlia conoscono bene – come tutti, peraltro – cosa accade al di là del muro di cinta, dove Höss si reca puntualmente ogni giorno per fare il proprio dovere e discorrendo con Hedwig, infatti, l’anziana madre si chiede se la signora presso la quale faceva le pulizie si trovi anche lei nel campo celato alla vista dal muro. Nessuna di loro (e nessun altro) poteva dire, quindi, di non sapere: né la nonna dei cinque bambini, né Hedwig che insieme alle donne di servizio prova gli abiti (una pelliccia – la padrona di casa – e delle semplici camicette, le lavoranti) che provengono dalle baracche al di là di quel confine, visibilissimo, che separa la felice e quasi bucolica residenza dagli altri fabbricati.

Null’altro o poco più accade nel corso del film, durante il quale i membri adulti della famiglia non mostrano alcun segno di cedimento o ravvedimento, eccezion fatta – forse – per la madre di Hedwig, che dopo alcuni giorni di permanenza e la visione del campo da una finestra del piano alto della casa, scompare senza salutare la figlia ma lasciandole un biglietto, che viene bruciato e di cui lo spettatore non conoscerà il testo. Nulla scuote, quindi, la moglie di Höss, che dimostra – anzi – di essere dotata di un carattere assai forte quando decide di non seguire il marito nel trasferimento al campo di Sachsenhausen vicino Oranienburg. E come mai si oppone in modo così convinto al trasloco suo e del resto della famiglia verso la nuova destinazione del coniuge? È semplice e, per lo spettatore, agghiacciante: perché il luogo e la casa in cui vivono è la realizzazione concreta del loro sogno giovanile di essere un esempio di famiglia ideale nazionalsocialista.

Glazer rappresenta – con immagini quasi atemporali e l’azzeccata fotografia di Łukasz Żal – la banalità del male descritta sessant’anni fa da Hannah Arendt nell’omonimo saggio e l’adesione incondizionata al Nazismo di buona parte del popolo tedesco sapientemente (e tristemente) narrata da Daniel Goldhagen ne “I volenterosi carnefici di Hitler”. Ciò che emerge dalle scene – riprese spesso in campi lunghi o medio-lunghi, mentre sono del tutto assenti i primi piani – è una vita all’ombra dei crematori di persone totalmente prive di qualsivoglia empatia per chi c’è oltre il muro e, talvolta, anche per chi è al di qua dello stesso, come traspare dagli sbotti d’ira della padrona di casa verso le domestiche quando qualcosa non va come dovrebbe. Una mancanza di empatia che il regista aveva già indagato approfonditamente in Under the Skin: in quel caso, l’incapacità era quella di due alieni che, però, dopo essere entrati in contatto con la sofferenza degli esseri umani sviluppano un primo seme di sensibilità verso il mondo e la vita che, al contrario, nel caso dei nazisti – ben più vicino a noi – appare impossibile.

L’autore  gira un film ad alta intensità intellettuale ed estremamente originale per ciò che concerne la messa in scena e il modo di affrontare il tema dell’Olocausto, per il quale assume in toto su di sé e sull’opera cinematografica l’irrappresentabilità dell’accaduto. E ciò al punto da realizzare quello che sembra essere più un documento sociologico e psicologico sul Nazismo (e sui nazisti) che una testimonianza sulla Shoah. Per un risultato finale un po’ freddo e caratterizzato da alcuni passaggi di interpretazione più complessa, come le scene rappresentate quasi in cianografia – evocate durante la lettura delle fiabe da parte del buon papà Höss – e il passaggio in cui lo stesso vomita ripetutamente senza che se ne comprenda il motivo.

Un’opera che lascerà il segno, a prescindere dal livello di gradimento presso il grande pubblico, per le sue peculiari e innegabili caratteristiche. E un film che ci fa riflettere sul nostro presente e sulla possibilità che quell’assenza di empatia che ci sembra tanto oscena possa riguardare anche la nostra esistenza.

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