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LA CITTÀ PROIBITA | Delitto al ristorante cinese

Regia: Gabriele Mainetti
Produzione: Italia
Anno: 2025

“Qui tutto è permesso e niente è importante; in Cina niente è permesso e tutto è importante”.
Un po’ tranchant, ma di effetto.

C’è molto genere nell’ultimo film di Gabriele Mainetti. Tessere di un puzzle il cui disegno è chiaro anche se non abbiamo proprio tutti i pezzi. Un po’ Tarantino un po’ Jackie Chan e Bruce Lee, ma anche Tomas Milian e perché no la Sora Lella incattivita e biondoceneresenectute con la faccia truce (anche un po’ Jack Palance da vecchio) e la voce cava più che roca di Marco Giallini, amante di De André, che ci regala La canzone dell’amore perduto. 

Si parte forte e, come Jeeg Robot emerge sovrumano dai liquami, qui sbuchiamo dalla Cina all’ Esquilino, Roma. Ahó avemo fatto ‘r botto.

Poi, manco fossimo in una puntata del tenente Colombo, sappiamo (intuiamo fortissimamente) come sono andate le cose. E un po’ ci spiace. E presa una via, quella si segue. La guida è ferma, tiene la strada, ma manca quel guizzo, quell’ azzardo, quell’ inversione a U, quel contromano che ci si sarebbe aspettato e che ci avrebbe, al contempo, spiazzato. Luca Zingaretti cadavere eccellente, Sabrina Ferilli in parte, fottuta di  malinconia, tra l’abito elegante e le ciabatte, un tradimento e un’illusione. Yaxi Liu, stunt woman brava, credibile e a proprio agio e Lorenzo Borello insoddisfatto, interdetto e con quelle faccette un po’ così.

Dopo il picco di adrenalina iniziale, il film perde colpi. Si menan sì colpi a destra e a manca (e quelle sono sicuramente le scene più riuscite e spettacolari), ma il ritmo fatica a sostenersi nei vari frattempo che si dilatano.

Emerge un problema di scrittura che stenta a tenere insieme, guerre intestine, loschi cinesi vs loschi romani, malavita, drammi familiari, scomparse, ritrovamenti, vendette, giustizia sommaria, insoddisfazione, destino segnato, e soprattutto ammore. Ché poi di quello si tratta come dice la cartolina promozionale rilasciata nei cinema. Una storia d’amore fotoromanzata e condita di tutti i tratti delle storie d’amore impossibili, improbabili, ostacolate e che dopo una serie di rivoluzioni intorno al sole, pacificano due solitudini e il loro dolore e approdano al lieto fine. (Qualcuno ha detto Scespir?… Me cojoni!)

Roma è lo scenario acido colorato lisergico e poi classico, maestoso, eterno che tutto accoglie, mastica e digerisce senza manco che te ne accorgi. La Roma che stende la sua rete e ti accalappia, ti cattura con la sua bellezza e ti costringe a quel ceppo mentale che trasforma la ribellione in indolenza.

Percorrerla sullo scooter è così iconico che manco più è citazionista: fa parte del pacchetto turistico e Roma non ti abbandona. Sta lì a farsi giustamente guardare, a stupirti again and again coi suoi pezzi forti e la notte ancor di più. La cartolina si rigenera ogni volta perché è il suo ritratto a non invecchiare mai. Anche se la città ha millemila anni, traballa e ha le ossa rotte. Peccato per i gatti: i felini latitano e se ce n’era uno non l’ho visto. 

Poi succedono le cose che avevamo fortissimamente intuito. Compreso l’epilogo. Perché come disse qualcuno se c’è una grattugia, oltre a fare il suo può (forse/anche/persino) ferire, ma se c’è una pistola beh, allora…

Dalla Cina si era partiti due ore e un quarto prima e in Cina si ritorna. Cotti e figliati.

[R]Amen.

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