Autunno 1943, Prussia orientale. La giovane impiegata Rosa Sauer, in fuga da una Berlino devastata dai bombardamenti e dalla carenza di cibo, giunge nel villaggio rurale dove vivono i suoceri. È rimasta sola, i genitori sono morti e il marito è impegnato sul fronte russo, da dove giungono solo notizie frammentarie.
Questi – il cibo e la presenza di una guerra sullo sfondo che opprime anche senza mostrarsi – sono i due fili conduttori de Le assaggiatrici di Silvio Soldini, una pellicola che ricostruisce con accuratezza le ambientazioni e l’atmosfera cupa e spietata dell’epoca. Come succede nei contesti di guerra e oppressione, mentre i normali cittadini vivono in ristrettezze, i dittatori e le élite non subiscono alcuna privazione. Lo scopre a sue spese la giovane protagonista, quando una pattuglia di soldati la preleva dalla sua abitazione e, senza spiegazioni, la trasporta assieme ad altre sei donne in un edificio sotto il controllo militare. La sua speranza è di avere notizie del marito disperso al fronte, invece – dopo essere state sottoposto a un rigoroso controllo medico – lei e le altre si ritrovano davanti a una tavola imbandita. Una visione stupefacente, per chi fa la fame da mesi. Ma è subito chiaro che qualcosa non quadra, visto che la stanza è sorvegliata da due soldati che verificano che venga consumato tutto e solo il cibo destinato a ciascuna. I piatti sono infatti preparati dal cuoco del Fuhrer in persona, e il compito delle giovani e sane donne tedesche, appositamente selezionate, è quello di assaggiarli prima che vengano serviti a Hitler, per scongiurare eventuali tentativi di avvelenamento. Una sorta di “roulette russa” giocata con coltello e forchetta, alla quale non è possibile sottrarsi, pena la morte. Dopo mesi di stenti, la possibilità di cibarsi è dunque minata dalla onnipresente inquietudine di rimanere avvelenate, senza possibilità di rifiutare questo ingrato compito, da espletare tutte le volte che il Fuhrer risiede nella Tana del Lupo, la base militare situata a poca distanza. D’altra parte, il dittatore nazista ha ragione a preoccuparsi per la sua incolumità: infatti, è proprio qui che, di lì a poco, avverrà il fallito attentato ordito ai suoi danni da alcuni alti ufficiali, consci della necessità di eliminarlo prima che portasse alla totale rovina la Germania.
La situazione di tensione generalizzata, le privazioni, le imposizioni e la condizione di fragilità psicologica delle “assaggiatrici” portano a una serie di dinamiche di solidarietà o conflitto, a seconda dei rispettivi caratteri e del momento contingente, con varie svolte narrative tese a mettere in evidenza anche le carenze affettive di giovani donne private del conforto dei loro uomini, scomparsi a causa della guerra, condizione che porta a commettere errori potenzialmente molto gravi. Le cose peggiorano con l’arrivo di un nuovo Comandante, fanatico assertore del regime nazista, che irrigidisce ulteriormente la disciplina, specialmente dopo il già citato attentato (fallito) a Hitler, a seguito del quale le donne sono costrette a trasferirsi in pianta stabile nel complesso militare, senza possibilità di rincasare neppure la notte.
La narrazione prosegue con salti temporali scanditi da opportune didascalie di riferimento, che rendono edotto lo spettatore dello scorrere dei mesi in questo contesto artificiosamente sospeso, dove la guerra rimane, come si diceva, sullo sfondo, presenza percepibile solo in maniera indiretta. Ma col passare dei giorni si capisce che la situazione è sempre più compromessa. Finché, con un’accelerazione improvvisa, tutto precipita. Il fronte russo è crollato e le truppe sovietiche avanzano implacabili, incalzando quello che resta dell’esercito del Terzo Reich. Occorre smobilitare e ripiegare, con urgenza e nel caos, con i pochi treni che ancora riescono a circolare, ma riservati agli utilizzi militari. È in questo frangente estremo che le due linee narrative principali si incrociano drammaticamente, portando a un epilogo inevitabilmente tragico.
Sui titoli di coda possiamo leggere che il film è basato sulla storia vera di Margot Wölk, che solo molti anni dopo la guerra, verso la fine della sua vita, ha testimoniato questa sua esperienza di “assaggiatrice” per conto di Hitler, ispirando il romanzo di Rosella Postorino che ha fornito il titolo e il soggetto alla pellicola. Una storia dunque realmente accaduta e solo in parte romanzata, che per l’ennesima volta, se ancora ce ne fosse bisogno, mette in luce tutta la ferocia del regime nazista, che opprimeva e perseguitava non solo i “diversi” – ebrei, zingari, omosessuali, comunisti … – ma anche i suoi stessi cittadini, in particolare le donne, considerate evidentemente inutili dal punto di vista militare e, dunque, sacrificabili per prevenire eventuali tentativi di avvelenamento del Fuhrer, il quale poteva degustare tranquillamente le sue prelibatezze, mentre il popolo faceva la fame. Un po’ quello che succede da sempre e ancora oggi più o meno in tutte le dittature.