Titolo originale: The Zone of Interest
Regia: Jonathan Glazer
Anno: 2023
Produzione: Regno Unito, Polonia
una recensione a cura di Deborah Gallo
Ambrosio cinecafè: le poltrone rosse sono ampie e confortevoli, le luci si spengono, il film inizia. Lo schermo è nero e la sala, al buio, è pervasa da suoni poco comprensibili, ermetici, angoscianti. Grida di dolore, urla che si alternano al canto stridulo di uccellini e rumori penetranti, generano inevitabilmente una sensazione di fastidio acuta, quasi aspra che lo spettatore è costretto a subire, poiché lo schermo rimane privo di colore e l’unico senso che viene brutalmente stimolato è quello dell’udito. Se lo scopo di Jonathan Glazer, regista de La zona d’interesse è quello di turbare l’animo di chi assiste, e calarlo in un clima altamente disturbante allora si può dire aver colto nel segno.
La zona d’interesse racconta la quotidianità di Rudolf Höß, ufficiale delle SS e comandante del più grande campo di sterminio nazista, quello di Auschwitz. Il protagonista, sua moglie Hedwig e i loro cinque figli trascorrono la loro serena esistenza in una casa adiacente al campo di concentramento. Il giardino verdeggiante ed idilliaco della villa, ricco di fiori e piante di ogni genere, dall’echinacea ai girasoli, confina con le mura del campo di sterminio, ma i protagonisti sembrano essere volutamente ciechi rispetto l’orrore che dall’altra parte si consuma quotidianamente. L’indifferenza che accomuna ogni membro adulto della famiglia, che prosegue, impassibile, la propria esistenza di fronte alla disumanità che si sta perpetuando è ciò che maggiormente risulta angosciante e genera, in chi guarda, una sensazione quasi di soffocamento. Non è attraverso le immagini che Glazer vuole stimolare la sensibilità dello spettatore, ma mediante l’utilizzo di suoni e rumori perturbanti che arrivano dall’altra parte del muro. La contrapposizione tra ciò che si vede — una famiglia apparentemente sana e felice — e ciò che si sente è netta e disturbante, a tal punto da rendere scomoda la visione e di incutere uno stato di profondo disagio nello spettatore. La permanenza dello sguardo sullo schermo spesso di colore nero o rosso fuoco, la resistenza ai rumori inquietanti rende, soprendentemente, la sala cinematografica un ambiente inospitale. Forse è proprio questo lo scopo ultimo del regista, stimolare attraverso la contrapposizione di immagine e suono la sensibilità dello spettatore, stordirlo e ammutolirlo, cercando di farlo immedesimare completamente in un clima di profonda angoscia e disagio.
I nostri figli sono sani, esordisce Hedwing per rassicurare Höß, ma l’esposizione alla calma apparente che si respira nella villa di famiglia, ampia e rigogliosa quanto claustrofobica, e a quelle grida che talvolta si udiscono, smentisce la visione distorta della madre. La donna si sforza di non guardare, ma al contrario i bambini, pur non vedendo, reagiscono ad ogni stimolo udito e assorbono l’atrocità perpetuata a loro insaputa. L’inconscio e la dimensione del sogno, infatti, ne sono testimoni. Girato con una telecamera termica per ottenere un’immagine in negativo, il sogno ricorrente di una bambina che pianta mele nei campi di lavoro, ci fa sperare che ci sia ancora un briciolo di luce e umanità da salvare, tutelare e proteggere dall’orrore della deumanizzazione a cui tutti, assistendo con indifferenza, prendono parte.
Ed è proprio l’indifferenza dell’essere umano all’atrocità del genocidio, che rende il male perpetuato tanto banale, agghiacciante, paralizzante. Un’opera ambientata nella Germania nazista che non perde la sua attualità, oggi più che mai. La zona d’interesse è un film sulla memoria, ma soprattutto uno stimolo a rimanere integri, umani; un incentivo per non dimenticarsi quanto sia feroce e pietoso voltarsi dall’altra parte per evitare di guardare.