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MEGALOPOLIS | Il riflesso megalomane del suo autore

Regia: Francis Ford Coppola

Anno: 2024

Produzione: Stati Uniti d’America

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva

Non c’è niente di nuovo nell’esperienza umana, signor Tully. Ogni generazione pensa di aver inventato la dissolutezza, la sofferenza o la ribellione, ma ogni impulso e appetito dell’uomo – dal disgustoso al sublime – è in mostra proprio qui, tutto intorno a lei. Quindi, prima di liquidare qualcosa come noioso o irrilevante, ricordi che se vuole veramente capire il presente o se stesso, deve iniziare dal passato. La storia non è semplicemente lo studio del passato, è una spiegazione del presente”.

Questo il dialogo tra il professor Hunham (Paul Giamatti) e il suo allievo Angus Tully (Dominic Sessa) in visita a un museo, scena iconica del film The Holdovers – Lezioni di vita di Alexander Payne.  Nulla è più distante dalla filmografia di Payne di quella di Francis Ford Coppola, ma la frase è un ottimo spunto per tentare un’interpretazione di Megalopolis.

Il nuovo film del regista di alcune fra le opere più importanti della storia del cinema, è interamente costruito sulla suggestione di un parallelo tra i meccanismi di esercizio del potere e creazione del consenso nella Roma antica e la loro espressione aggiornata nei moderni Stati Uniti d’America. Al centro è posta la città di New Rome: fusione ideale e distopica – nel bene e nel male – della Roma classica e della moderna New York, situata temporalmente in uno scorcio imprecisato del XXI secolo. La megalopoli è governata da una élite di famiglie patrizie che spesso adottano nomi o cognomi direttamente tratti dall’ultimo periodo della Roma repubblicana: un momento di crisi delle vecchie istituzioni e di corruzione ma anche di grande vitalità in cui emersero personaggi di forte carisma sia sul piano politico sia su quello culturale. Non a caso il protagonista della vicenda è l’architetto Cesar Catilina (Adam Driver), il cui nome richiama due personaggi storici di sicuro fascino e spregiudicatezza che segnarono una forte cesura con la tradizione. Cesar – insignito del premio Nobel per l’invenzione del Megalon, un materiale da costruzione di caratteristiche straordinarie – coltiva il progetto di ricostruire, dopo aver raso al suolo interi quartieri, una New Rome più bella e migliore basandosi proprio sulle potenzialità della sua scoperta. Ad opporsi è il sindaco ed ex-procuratore distrettuale Franklin Cicero (Giancarlo Esposito) – e anche stavolta la scelta del nome non è casuale – che osteggia vigorosamente il progetto, considerandolo uno spreco di risorse per New Rome. Al suo posto, invece, pensa a un nuovo e modernissimo casinò, espressione di un modello di città e società che Cesar considera superato. Terzo personaggio chiave della vicenda è Hamilton Crassus III (Jon Voight) – il ricchissimo zio del protagonista – disposto a finanziare il sogno etico e architettonico del giovane genio che – fra l’altro – ha il misterioso potere di fermare lo scorrere del tempo.

Il film descrive lo spaccato di una società in decadenza: corruzione politica, assenza di moralità, perversione dei costumi, condizionamento e ottenebrazione del popolo grazie a giochi gladiatori e gare di bighe tenuti in un nuovo Colosseo. Dietro tutto ciò è sin troppo semplice scorgere gli odierni Stati Uniti e una rutilante rivisitazione degli eventi degli ultimi anni legati alla pratica di una lotta politica disonesta e senza esclusione di colpi. D’altra parte è presente anche la speranza che, come accaduto in passato, da un periodo buio emergano potenzialità capaci di fare la differenza e traghettare la società verso un nuovo e differente sviluppo: una dichiarazione di fiducia nel futuro e nella Scienza – tema rilevantissimo dalla pandemia di Covid-19 in poi – e in un domani migliore, incarnata da Cesar Catilina, la cui condotta è irreprensibile nonostante tutto.

Nonostante le molte suggestioni messe in campo,  il risultato non è sufficiente per confezionare un film all’altezza delle aspettative a causa del susseguirsi di quadri slegati fra loro – che denunciano non pochi problemi di sceneggiatura, con un insieme di eventi e sotto-eventi fin troppo prevedibili –, di scenografie volutamente kitsch – coloratissime e al limite dell’incomprensibile – e attori che hanno l’aria di essere stati lasciati letteralmente alla mercè del caso, siano essi leggendari – come Dustin Hoffman e Jon Voight – o giovani, noti e meno noti. Poco si salva anche dal punto visivo, ad eccezione – forse – della scena iniziale, in cui il protagonista è in cima al Chrysler Building, in equilibrio precario sul ciglio del cornicione. E tutto ciò nonostante le scene siano state girate quasi integralmente ricorrendo all’innovativo e avveniristico palcoscenico digitale dei Trilith Studios di Atlanta.

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