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LA VALUTAZIONE | Affogando per respirare

Titolo: La valutazione (The Assessment)

Regia: Fleur Fortuné

Paesi di produzione: Regno Unito, Germania, Stati Uniti

Anno: 2024

 

E se non siamo abbastanza bravi?

Se non lo siamo noi chi lo è?

 

Echi di Alex Garland si profilano nella costruzione distopica di un microcosmo asfittico nella spazialità protetta, inquietante e seduttiva che a un certo punto si apre per accogliere un’ipotesi di futuro.

Mia/Elizabeth Olsen e Aaryan/Himesh Patel, marito e moglie, desiderano un figlio e sono stati ammessi al programma governativo di procreazione. Lei è una botanica. Lui progetta esseri virtuali. Entrambi danno origine a qualcosa, producono vita, reale o simulata nei rispettivi spazi di lavoro: una serra multiclimatizzata adiacente all’abitazione per lei e una sorta di antro camera oscura all’interno della casa per lui.

Siamo in un futuro prossimo venturo. Una soltanto accennata catastrofe ambientale originata da estati sempre più calde che hanno provocato carestie e poi distruzione ha diviso il mondo in due parti: il nuovo mondo, che cerca di sopravvivere grazie alla tecnologia – l’assunzione di un farmaco garantisce un prolungamento di vita inusuale per il genere umano – abitato da una sorta di élite che però non può avere figli per procreazione naturale per evitare il sovrappopolamento data la scarsità di risorse e il vecchio mondo, contaminato, inospitale che è diventato una sorta di colonia penale dove sono esiliati i dissidenti, i ribelli al sistema, come la madre della protagonista Mia. 

Scandito in giornate (sette, cioè il tempo di osservazione della coppia necessario per stabilire l’idoneità a essere genitori con gestazione ex utero) inizia un countdown che ci immerge da subito nell’ansia da prestazione dei due potenziali genitori che sanno che se falliranno difficilmente potranno avere un’altra possibilità a loro disposizione.1000161820

La valutatrice, una mefistofelica Virginia/Alicia Vikander che pare diretta discendente della figlia del fattore di American Gothic di Grant Wood, inizia un implacabile interrogatorio che nulla concede e che si insinua, tra le pieghe di domande semplici in apparenza, come una colla vischiosa che poi sarà impossibile rimuovere. Mia e Aaryan si sottopongono, dapprima singolarmente, in un serrato campo e controcampo, al fuoco di fila. Ed è solo l’inizio. L’inizio di una messa in prova sottilmente perversa che scivola lungo provocazioni, test attitudinali come la costruzione di una specie di igloo geode di cui avanzerà un pezzo che invece avrebbe dovuto incastrarsi, degli ospiti a cena, imprevisti e manipolazioni al limite dell’assurdo.

Fleur Fortuné, alla sua opera prima conduce sapientemente il gioco al massacro che lentamente ma inesorabilmente si sta perpetrando. La coppia, in ogni latitudine, in ogni residuo di mondo, rimane pur sempre una coppia alle prese con un vissuto che per cose imponderabili rischia di trovarsi improvvisamente in rotta di collisione con quello che sino a un attimo prima sembrava un percorso lineare, quand’anche non facile, condiviso e solidale. La valutatrice con il suo incalzare gioca un ruolo per così dire maieutico, estrapolando da ciascuno pensieri, sentimenti, trascorsi, ferite, facendo affiorare toni, atteggiamenti e indole personale che restavano in ombra, celati da quell’oscurità domestica, sia reciprocamente, sia a sé stessi. 

1000161816L’ambientazione – questa sorta di casa bunker, spoglia di arredi, geometrica, che riceve poca luce e quella che entra è filtrata dalla cromia primaria delle vetrate geometriche à la Mondrian – asseconda perfettamente il clima e la tensione che scandiscono i tempi di un’inquietudine in crescendo. Succederà qualcosa. Lo avvertiamo, con il disagio di una cosa che intuiamo senza sapere quale possa essere. Immaginiamo esserci quella bomba metaforica nascosta da qualche parte e pronta a esplodere pur senza averla vista. E qui sicuramente altri rimandi – Lanthimos, ma anche Avranas – trovano spazio nei nostri recessi sensoriali laddove il perturbante diventa cifra narrativa costituente.

Il finale chiude dei cerchi che prima nemmeno avevamo compreso fossero aperti. Quella nuotata iniziale che pareva avulsa dal contesto, trova più di un senso: quello di un destino che accomuna in un certo qual modo – o in più d’uno – Mia e Virginia. E quel “torna indietro” gridato accoratamente dalla riva, vale come un richiamo che si riverbera e riecheggia oltrepassando i confini spazio temporali.

Il vecchio mondo non è poi detto che sia così brutto. O quantomeno – considerati i rischi e i pericoli – più insopportabile del nuovo, dove1000161819 comunque si accumulano macerie, se il nuovo è così disumano che si è reso necessario privarsi e sopprimere gli animali domestici e se si darà corso a una generazione di esseri virtuali in grado – chissà? – di sostituire quelli reali, replicando fattezze e texture, morbidezza del pelo e sericità della pelle, ma privi di odore, quello che ancestralmente determina la riconoscibilità e l’imprinting della continuazione della specie.

Forte e presente senza essere invasivo l’impianto sonoro che sorregge il visivo. Il respiro ansimante apre il film e il respiro finalmente libero lo chiude. Dentro il senso nuovo di un vivere di cui poco si sa ma che pare possedere il seme di un cauto ottimismo.

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