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IO SONO ANCORA QUI | Se tu solo sorridi

Titolo originale: Ainda estou aqui 
Regia: Walter Salles
Produzione: Brasile, Francia
Anno: 2024

Ci sono film narrativi che raccontano molto bene una storia e ci sono film immersivi che ti fanno partecipe di quella storia, come se tu abitassi quelle case, attraversassi quelle strade e, in un angolo non inquadrato, respirassi quell’aria e vivessi accanto ai personaggi. I’m Still Here è entrambe le cose. Ci immerge e ci dà la giusta distanza per osservare quanto accade. Che non è solo quella degli anni trascorsi, ma quella necessaria a comprendere avvenimenti che hanno avuto poca eco in Italia. E, pur consentendo questa prospettiva, la messa in scena accorcia la distanza emotiva riservando una fra le visioni più toccanti degli ultimi tempi. La memoria è sì un fatto personale, in questo caso drammaticamente personale, ma anche un dovere collettivo laddove invece si cerca di cancellarne le tracce, di vanificarne il contenuto e stendere un drappo assolutorio su chi commise i crimini della dittatura. Uccidendo, torturando, facendo sparire persone e costringendo i congiunti allo stravolgimento del vissuto familiare, alla perdita dei punti di riferimento e all’ insorgere della paura e del pericolo costante. Walter Salles pare instaurare magicamente con tutti i suoi interpreti un patto sodale che va al di là dei meriti e della prova attoriale, sin dai tempi di Central do Brasil. Un film che avrebbe già meritato l’Oscar (come miglior film straniero) già nel 1999. Poco incline al patetismo Salles dosa magistralmente i passaggi che segneranno il destino della famiglia Paiva. E grande merito va dato alla costruzione di un’ ambientazione reale, pensata e rappresentata nel suo essere teatro ignaro di un dramma incombente. Dove la preoccupazione va di pari passo con la normalità, con l’essere felici perché si può essere felici ovunque anche in prossimità del precipizio che si apre ad un tratto, attraverso una sorta di irruzione silenziosa in quella casa che custodisce i ricordi di una famiglia e dovrà, per forza di cose, essere abbandonata. Tirare le tende, oscurare ciò che accade all’ interno, l’intimidazione delle armi a vista, la convivenza forzata con gli esecutori indifferenti e colpevolmente complici è il paradigma di quanto avvenuto su più larga scala: colpire, occultare, agire in nome di ordini superiori ai quali ci si è dovuti “semplicemente” attenere per quello che sarà un massacro di stato.

Talvolta la ricostruzione di un’epoca poi non così distante dalla nostra – siamo nel 1971 –  è un banco di prova arduo, anche quando ci si avvale di professionisti. Può insorgere quell’eccesso di fedeltà che non per forza deve coprire tutti i punti a disposizione per renderla riconoscibile. Le incongruenze, gli anacronismi sono parte integrante di ogni stagione che abbiamo attraversato: non tutti seguono la moda del momento, non tutte le case hanno per forza gli stessi accessori, e quando la realizzazione di un momento storico non tiene conto di questi fattori, ecco che emerge il tratto posticcio, la finzione, l’applicazione scolastica di un canone che sembra adempiere al solo compito di spuntare tutti gli item di una lista. Anche in buona fede, con le cosiddette migliori intenzioni. I’m still Here non soffre di questo problema. L’estrema naturalezza ci introduce immediatamente in un clima che, grazie anche alla fotografia di Adrian Teijido, entra completamente in quegli anni, nei colori, negli umori e nelle sonorità e lo fa, appunto, senza sforzo apparente proprio perché l’accuratezza del lavoro è “sporcata” e “graffiata” al punto giusto, attraverso la quotidianità, i filmini girati in spiaggia, la passeggiata per un gelato o una festa in casa.

Basato non solo su una storia vera, il film è tratto dal resoconto che di quella storia ne ha fatto Marcelo Rubens Paiva, il figlio dell’ex senatore del partito laburista brasiliano (sciolto con l’avvento della dittatura nel 1964) Rubens Paiva. Ripresa la sua professione di ingegnere, Paiva/Selton Mello teneva alcuni contatti con i membri della resistenza. Condotto al comando di polizia per un interrogatorio, non fece più ritorno dalla sua famiglia e il suo corpo non fu mai ritrovato e restituito. La storia di un’assenza – enorme, quella di un capofamiglia – si trasforma nella storia di una presenza gigantesca, quella della moglie e madre (anch’ella arrestata e per dodici giorni tenuta in isolamento) Eunice Facciolla Paiva/Fernanda Torres. A lei è affidato il compito di rimettere insieme i pezzi di una famiglia e di non disperdere la memoria di un uomo e di quello che la dittatura ne ha fatto e di quello che ne è stato. Il volto di Fernanda Torres è cartina di tornasole di quanto accade. E’ una costante vibrazione di adeguamento alla scossa tellurica che la sorprende, l’attraversa, la fa tremare, la riduce in macerie e la ricostruisce. Nel suo volto c’è la forza del suo agire, ci sono l’irriverenza e la fierezza e la struggente tenerezza degli affetti, dei legami, dei ricordi e dei passi per andare avanti.

Come Eunice Paiva verrà poi colpita dal morbo di Alzheimer, così il Brasile si avvierà alla perdita della memoria della dittatura, in un parallelismo amaro ma implacabilmente reale. Walter Salles – che da ragazzo ha frequentato la famiglia Paiva a Rio de Janeiro – non ha finalità didattiche, non vuole trasmettere forzosamente un messaggio. Il messaggio è quello intrinsecamente veicolato dall’agire e dal pensare di una donna e poi dei suoi figli per restituire dignità (non perduta ma sottratta) alla storia di una persona e dei tanti come lui, uomini e donne, annientati da un contesto violento e repressivo, dove sono venute meno le garanzie e le condizioni di un vivere civile, pluralistico e democratico, dato per scontato dai più. Guardare è anche capire. E ricordare. E sentire. E se da un lato c’è la rabbia per le derive processuali, l’amnistia e l’impunità degli assassini di Rubens Paiva, dall’altro c’è la forza trasmessa da una donna, divenuta negli anni attivista e avvocata dei diritti civili indigeni, che non ha mai smesso di credere nella sua lotta e per questo non l’hai mai abbandonata. Nei fotogrammi finali, è interpretata negli ultimi anni di vita da Fernanda Montenegro (già protagonista di Central do Brasil), attrice e madre di Fernanda Torres, nei cui occhi, seppur smarriti, passa la storia che abbiamo appena visto a guardia di tutti noi: “Ditatura nunca mais!”.

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