Titolo originale: Dāne-ye anjīr-e ma’ābed
Regia: Mohammad Rasoulof
Produzione: Iran, Germania, Francia
Anno: 2024
Ancora una volta l’Iran. E ancora una volta – e non solo in quella terra – i registi e il cinema come soggetti e oggetto di resistenza umana, sociale e politica di fronte alla dittatura e, nel caso specifico, alla teocrazia degli ayatollah. Con Il seme del fico sacro (premio speciale della giuria al Festival di Cannes e candidatura agli Oscar nella categoria miglior film straniero) tocca a Mohammad Rasoulof colpire nel segno: collocandosi per età (è del 1972) fra Jafar Panahi (1960) e Ali Asgari (1982), completa e arricchisce – con il proprio stile e impronta artistica – un gruppo di cineasti persiani costantemente vessati e limitati nella propria libertà personale dal governo iraniano, al punto da finire spesso in carcere o agli arresti domiciliari.
Il nuovo lungometraggio dell’autore di Shiraz descrive gli effetti (e la presa) del regime su una famiglia medio-borghese della capitale – padre, madre e due figlie adolescenti – appartenente all’apparato burocratico statale. Il capofamiglia Iman (Misagh Zare) lavora per il ministero della giustizia e da pochi giorni è stato promosso all’impegnativo ruolo di giudice istruttore. L’avanzamento di carriera è di quelli che possono cambiare l’esistenza di una famiglia a modo e timorata di Dio come quella di Iman: la moglie Najmeh (Soheila Golestani, anch’essa regista) pensa subito alla nuova casa che il governo assegnerà loro e alla possibile scalata sociale, mentre le figlie Rezvan (Mahsa Rostami) e Sana (Setareh Maleki) gioiscono per la realizzazione del sogno di avere una stanza propria da non condividere con nessuno. Le ovvie e un po’ canoniche ambizioni di una normale famiglia borghese, insomma. E un altrettanto prevedibile conflitto generazionale, espresso dall’insofferenza delle due ragazze per le aspettative della madre, che esige da loro una condotta all’altezza del nuovo ruolo del padre e – quindi – impeccabile secondo criteri che le giovani faticano a condividere e comprendere. Non siamo, però, in un paese occidentale ma nella teocrazia iraniana e conflitti che nel nostro contesto potrebbero rimanere su un piano intimo e familiare sono destinati a ingigantirsi e deflagrare.
Iman scopre presto che la promozione comporta un prezzo da pagare: se in precedenza partecipava senza responsabilità diretta alla raccolta e all’analisi delle informazioni sui casi giudiziari assegnati al suo ufficio, oggi – in qualità di giudice istruttore – le decisioni su chi e in che modo dovrà essere condannato sono in carico a lui, che firmerà gli atti ufficiali d’arresto e di condanna. E se l’idillio dovuto alla promozione finisce quasi subito, l’idillio – che da tempo non è tale – nelle scuole, nelle università e nelle strade dura ancor meno. Scoppia in quei giorni, infatti, l’ondata di proteste per l’uccisione della giovane Mahsa Amini, arrestata dalla polizia morale per il mancato rispetto della legge sull’obbligo dell’hijab, indossato – a detta degli agenti – in modo “non consono”. La doppia uscita da una più o meno tollerata “comfort zone” – intima e personale nel caso della famiglia di Iman e politico-sociale per la cittadinanza – porta il giudice e i famigliari a intraprendere un viaggio ad occhi aperti e senza rimozioni psicologiche nell’Iran dei giorni nostri. Stazioni di partenza e arrivo sono, da un lato, le pressioni dei superiori su Iman per condannare senza esitazione (spesso a morte) i manifestanti e, dall’altro lato, l’inspiegabile scomparsa della pistola di servizio consegnata per difesa personale al giudice, potenzialmente a rischio di attentati in un momento storico in cui questi non può rifiutarsi di procedere – nonostante un iniziale turbamento – a condanne sommarie e durissime.
La vicenda narrata è l’occasione per l’autore di indagare e rappresentare dall’interno un segmento della società iraniana – con le sue aspirazioni e condizioni di vita – e fornire, in tal modo, una visione privilegiata dell’odierno Iran: da un lato, la limitazione delle libertà più elementari e, dall’altro lato, l’immarcescibile misoginia del regime, già affrontati da molti altri film di autori iraniani, compreso il recentissimo Il mio giardino persiano di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, che con tono leggero e poetico nulla tace sui temi in questione. Nel film di Rasoulof, tale aspetto è incarnato dalle figure femminili della famiglia: la madre, che essendo permeata da quel tipo cultura ritiene normale e giusta la propria sottomissione e le figlie, che riuscendo a confrontarsi con punti di vista differenti grazie alle informazioni non controllate dal regime attinte dalle rete, maturano un punto di vista personale e la medesima insofferenza che risuona nelle proteste di piazza. Nella parte finale, anche la madre cambierà la propria posizione ma più per una forma di pietas e protezione verso le figlie che per una vera e propria epifania.
Il nodo centrale del film è, però, il progressivo soffocamento di ogni possibilità (e capacità) di espressione personale e collettiva ma anche – e forse soprattutto – l’insinuante e profondo traviamento dell’anima che l’ambiente induce in persone come Iman, che – anche grazie a una religiosità e un’adesione acritica alla tradizione evidente sin dall’inizio – vede deformarsi la propria fisionomia etico-morale al punto da diventare irriconoscibile per la sua stessa famiglia.
In una società teocratica e liberticida, quindi, nessuno può resistere alla corruzione dello spirito. E nessuno, di conseguenza, può chiamarsi fuori e considerarsi immune da tale rischio. La ricerca di senso in quel che accade in un paese travolto dalla protesta e in ciò che viene chiesto di fare al giudice istruttore, non può che sfociare in un profondo disagio psichico e in una risposta paranoide del protagonista, che diventa una minaccia per moglie e figlie. Il sistema politico-religioso e i suoi principi corrodono quindi dall’interno – pur sembrando quasi provenire da un mondo “altro” – la società e i propri cittadini, che si trasformano in vittime sia quando disobbedienti di fronte al potere statale, sia quando convintamente sottomessi al regime (come Iman), in un gioco di causa-effetto evocato sin dall’esergo iniziale del film, che disvela come si tratti del racconto di uno strangolamento progressivo di una comunità di novanta milioni di persone. Un film davvero importante e ben girato, teso ed efficace.
Per la sua attività di cineasta, Mohammad Rasoulof è stato più volte processato e imprigionato, al punto da aver dovuto girare Il seme del fico sacro clandestinamente e per lo più in interni. Questa è la ragione per cui le scene di piazza derivano da materiale preesistente girato con i telefoni cellulari, aspetto che rende con grande efficacia l’importanza della diffusione di notizie non censurate nella creazione di una nuova coscienza nei giovani.
Dopo la condanna definitiva a otto anni di carcere, il regista è fuggito attraverso le montagne e vive oggi in Germania, dov’è giunto senza documenti ed è stato riconosciuto solo grazie alle impronte digitali in possesso delle autorità a causa di una precedente permanenza nel paese. Non a caso, il film è candidato all’Oscar come miglior film straniero in rappresentanza della Germania.