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DOSTOEVSKIJ | Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate

Regia: Damiano e Fabio D’Innocenzo

Anno: 2024

Produzione: Italia

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva

La prima serie televisiva dei gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo passa per pochi giorni al cinema, organizzata in due densi capitoli di una durata di oltre due ore ciascuno. L’idea dei produttori è stata quella di proporre sul grande schermo le sei puntate che andranno in onda su Sky nella parte finale dell’anno, un’idea che può dirsi felice per coloro che prediligono le visioni in una sala cinematografica.

Siamo in una provincia italiana e in una zona di territorio non ben identificata, forse della parte centrale della penisola ma non è per nulla certo. L’atmosfera reale e metaforica è plumbea e oscura, a causa della lunga serie di omicidi di un serial killer – ignoti alla stampa – che lascia sempre nelle vicinanze del cadavere un biglietto, scritto in uno stampatello maiuscolo vagamente infantile, in cui parla poco della vittima e molto di temi esistenziali con tono depresso e para-filosofico. È Enzo Vitello (Filippo Timi) – il poliziotto protagonista della vicenda – ad affibbiargli il nomignolo di “Dostoevskij” proprio per lo stile pensoso delle sue missive. In ogni caso, non vi è nessuna relazione fra le vittime (ormai decine) che possa incanalare le indagini, nessuna tecnica privilegiata di uccisione delle medesime – differente da caso a caso – e nessun indizio degno di nota. A contrastare il serial killer è una squadra di poliziotti cadente, demotivata e conflittuale anche con i colleghi di altre stazioni della zona, il tutto in coerenza con un contesto architettonico, ambientale e morale altrettanto degradato e fatiscente. In questo modo, i due registi danno vita a un mondo scuro e deformato dal male in cui è difficile distinguere i buoni dai cattivi e le vittime dai carnefici, poiché – in fondo – nessuno può davvero sfuggire al doppio ruolo.

Al centro della storia vi è il personaggio di Enzo Vitello: alle spalle ha un matrimonio finito, una figlia abbandonata da lungo tempo e distrutta dalla droga, nonché una salute precaria dovuta a un consumo incontrollato di psicofarmaci. Oltre a ciò, presta servizio in un ambiente di lavoro che lo considera un tossico e un fallito, al punto che il suo stesso capo e amico (impersonato da Federico Vanni) gli affianca per le indagini un giovane rampante e sicuro di sé (Gabriel Montesi) nel tentativo di riportare in riga una squadra priva di motivazioni e allo sbando. La condizione degli uomini che la compongono è espressa meglio di ogni altra cosa dallo stato della stazione di polizia: vecchia, fatiscente ai limiti della riconoscibilità e inserita in un contesto oscuro e quasi atemporale. Altrettanto malridotta è la casa del protagonista, un luogo in cui quasi nulla richiama, ormai, la funzione di abitazione e il senso del trovarsi “a casa”.

Con Dostoevskij i fratelli D’Innocenzo ci consegnano un mondo moralmente e fisicamente lurido e contaminato, nel quale nessuno è senza colpa e i cui protagonisti sono sperduti e non riescono a trovare una direzione, anzi l’hanno ormai smarrita da lungo tempo. L’ha persa Enzo Vitello, il cui unico talento è di essere un poliziotto dotato di un buon intuito; l’ha persa sua figlia Ambra (Carlotta Gamba), devastata dalla droga e da una vita trascorsa a raccattar denaro nei modi più osceni e autodistruttivi e l’ha persa l’amico e superiore di Vitello, che continua a vivere in una famiglia da cui – forse – si separerebbe volentieri. In questo mondo privo di riferimenti, triste e cupo, è il protagonista – dopo essersi dimesso dalla Polizia in seguito alla diffusione di un video pornografico della figlia inviato da lei stessa ai colleghi del padre – a intuire quella che si rivelerà la pista giusta: una classica vicenda fatta di un cattivo maestro e di violenze in orfanotrofio che, a distanza di anni, esplodono in una follia senza controllo che lascia dietro una serie di morti senza logica. Il protagonista risolverà il caso attraverso un’autentica discesa all’inferno (proprio e altrui), disvelando allo spettatore di esserci – in quell’inferno – già da moltissimi anni per cause personali terribili e inconfessabili. La decisione di lasciare la Polizia e seguire la propria intuizione, però, porterà sì alla cattura del killer ma anche a una scelta impensabile, degna conclusione di una vicenda in cui la parola speranza non ha diritto d’asilo e dalla quale nessuno esce indenne. E ciò anche se la scena finale, in cui Ambra e il superiore del padre camminano lungo un piccolo fiumiciattolo in un ambiente finalmente illuminato da un po’ di sole, può far pensare che qualcosa di meglio possa anche accadere. Ma i due escono fuori campo visivo e non possiamo che immaginarlo, questo qualcosa. O sperarlo.

In conclusione, una buona produzione dei D’Innocenzo che confezionano un noir che fa leva su un degrado e una violenza di stampo quasi americano, supportato da immagini sgranate e da una fotografia crepuscolare e malata volta a creare – insieme agli ambienti antropici e naturali rappresentati – un forte senso di disagio nello spettatore. Notevoli alcune idee di sceneggiatura anche se qualche passaggio è poco limpido, in particolare quelli legati alle vicende di contorno del serial killer, i cui legami con alcuni personaggi e avvenimenti non sono chiarissimi. Un po’ debole l’espediente narrativo con il quale Vitello trova la traccia giusta sulla quale indagare e migliorabili i dialoghi, in particolare quelli che coinvolgono il capo di Enzo Vitello, che copre un ruolo a tratti venato di una qualche ironia (vedasi la scena con il giovane commesso dell’autogrill). La qualità finale del lavoro sta nella capacità di partire da una visione cupa tipica del registro noir e da un potenziale antieroe e portare la narrazione e l’evoluzione del personaggio a conseguenze estreme grazie alla contaminazione con altri generi, all’uso delle immagini e della fotografia e alla performance di Filippo Timi, che non si è risparmiato in nulla. Al di là di tale estremizzazione, però, non ci sono elementi davvero innovativi: non lo è l’ossessione che si trasforma in una sorta di fascinazione per il killer, non lo è la violenza ostentata e talvolta pulp e non lo è nemmeno la scena della colonscopia, che sicuramente colpisce lo spettatore ma che, ricordiamo, è l’inizio di un film davvero notevole quale Diamanti Grezzi, opera di un’altra coppia di registi fratelli.

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