_UN PROGETTO DI BABELICA APS

[SPECIALE] I DANNATI | Homo homini lupus

Titolo originale: The Damned

Regia: Roberto Minervini

Anno: 2024

Produzione: Italia, Belgio

una recensione a cura di Elena Pacca

Un prologo. Un inizio che si insinua sottopelle, creando una sorta di disagio difficile da spiegare, Non ci sono scene violente. Né tanto meno un linguaggio. C’è una cupezza sovrastante che, come una nebbia, si infratta e si espande e sembra fuoriuscire dallo schermo e avvolgerti. Senza accorgerti sei in un bozzolo di costrizione allo sguardo che ti cattura nel nulla. Nell’inazione, nelle routine militaresche di questa truppa di volontari dell’esercito nordista – siamo nel mezzo della guerra di secessione americana –  che avanza verso Ovest, nel 1862, marciando, come tutti del resto, ma i soldati di più, verso quel momento che all’improvviso determina il trapasso tra il mondo dei vivi e quello dei morti.

Assaggiamo e saggiamo la brutalità sommessa e sotterranea sin da subito. che pare poi sublimarsi in un moto di agonia sospesa. Le cose non accadono, in un reiterato ammasso di attesa che poi come cumulonembi sovrastanti esplodono in un temporale improvviso per quanto saturo di aspettativa. Il nucleo degli uomini si divide, ci sono le prime perdite e alcuni soldati sembrano semplicemente scomparire lungo il cammino, come inghiottiti in una dimensione altra che più non appartiene al presente.

L’epica del West è completamente annullata, annichilita da un tono che non concede spazio a eroismi o doveri o sacrifici. Non c’è nessun fato a guidare le azioni umane. Nessuna costrizione, nessun premio e nessuna vendetta. È solo la guerra, per molti mercenaria più che motivazionale, che si fa scena di un tratto di mondo ostile, uomini accomunati da un prosaico destino di offesa per difendere la propria sopravvivenza in un futuro incombente. Di stenti, dolore e lontananza (le famiglie di origine sono un comparto assente, forse dimenticato, forse sacrificato da quegli uomini essenzialmente soli), di possibilità di un non ritorno e di speranze negate, nell’illusoria parvenza che ciò che si sta compiendo abbia un senso, che ci sia un qualcosa per cui valga la pena combattere.

Non aspettiamoci la tracotanza scenica di Revenant, qui siamo su un terreno essenziale, scabro e il freddo che avvertiamo non è sicuramente quello emotivo, ma proprio quello fisico che trasuda dai corpi che devono adattarsi al gelo, alla notte, alla neve, a una natura spettatrice delle azioni umane, che fa semplicemente il suo, in un’epoca e in un luogo in cui domina e non si allea con nessuna delle parti in causa.

Il cammino non si arresta. Si riprende la marcia. Perché non c’è un punto d’arrivo. Chi vince, se vince non vince per sempre e per tutti. La guerra, come gli uomini che la combattono, riprende la sua corsa che pare inarrestabile. Gli uomini muoiono, gli eserciti cambiano, altri ne verranno in un moto perpetuo che pare non avere e dare scampo. Un girone infernale di dannazione senza fine. Il particolare si fa universale, in una sineddoche interpretativa che si avvale anche di altri accorgimenti. I soldati sono una compagine di militi ignoti, un’individualità negata dalla massificazione della morte che seppellisce le storie dei singoli, in un unico computo generico che non fa distinzione. Eppure nell’essere parte di un gruppo – che deve trovare la sua forza e la sua capacità di resistere nell’essere collettivo – c’è la declinazione intima del singolo, dell’uomo con i suoi dubbi, le sue motivazioni, il suo modo di reagire, le sue aspettative – questa sarebbe una buona terra per crescere una famiglia – afferma qualcuno, i suoi smarrimenti, i suoi timori, come il rannicchiarsi fetale per essere accolti e protetti dal ventre caldo di madre terra..

Forse più negli occhi di chi guarda che nelle intenzioni, percepiamo come dei fosfeni i rimandi visivo-sensoriali a qualcosa che passa da La sottile linea rossa attraverso Il deserto dei tartari e a Picnic a Hanging Rock. Il nemico è sfumato, privo di contorni, ma aleggia costantemente insinuando la paura e lo spettro di qualcosa di più grande e di ineluttabile, un mostro soverchiante che, senza trascendere nel sovrannaturale, ha qualcosa di immanente e inspiegabile, al di là dello scibile umano che si nutre di cose terrene. E questo mostro rimane, come un veleno contamina il nostro pensiero a luci accese, riverberato dalle parole di Roberto Minervini che risuonano significanti oltre le immagini.

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