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INVELLE | Un non luogo resistente

Titolo internazionale: Nowhere

Regia: Simone Massi
Anno: 2023
Produzione: Italia, Svizzera

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva

Nel caso di Invelle meglio iniziare subito dal titolo, una parola caduta quasi in disuso del dialetto marchigiano d’entroterra, una sorta di limes linguistico delle parlate al confine tra le Marche e l’Umbria. Il suo significato primario è “in nessun posto”, che può assumere – in base al contesto in cui è utilizzato – una valenza di segno contrario, cioè “in qualsiasi posto, ovunque”. Sin dal titolo, quindi, prende il largo un senso di indefinitezza semantica ripreso, sia narrativamente che graficamente, dal film nel suo complesso.

Simone Massi è un pluripremiato animatore e regista di Pergola, in provincia di Pesaro-Urbino, specializzato in “corti” e oggi in sala con il suo primo lungometraggio. Si autodefinisce “animatore resistente” e ciò sia per la tecnica adottata, sia – con ogni probabilità – per un carattere affatto condiscendente. Come nei precedenti lavori, anche stavolta è ricorso all’uso di carboncino, matite, gessi, pastelli a olio, grafite e china, stesi su carta e graffiati via con vari tipi di strumenti per l’incisione. Le tavole sono eseguite a mano una per una, spesso lavorando direttamente sui fotogrammi di scene girate con attori non professionisti. L’effetto è quello di una costante vibrazione dell’immagine dovuta all’impossibilità di ripetere esattamente, su fotogrammi simili, le medesime linee e i contorni degli oggetti, conseguenza diretta di uno strumento di lavoro come il rotoscopio, che supporta il processo di trasformazione manuale di ciascun fotogramma in un disegno (oggi è stato sostituito dal computer, che Massi – però – non utilizza). Il risultato finale non è dissimile da quello dei film di animazione del realismo socialista prodotti a suo tempo in Unione Sovietica.

Difficile, e anche sconsigliato, individuare una vera e propria trama dell’opera e tentare, quindi, di seguirne le tracce. A far da guida sono i riflessi di una civiltà contadina – alla quale Massi, ex-operaio, appartiene – ormai estinta sotto il profilo sociale e culturale nonché linguistico, come evidenziato in modo sottile dal film, durante il cui dipanarsi l’uso del dialetto della zona di origine del regista va sempre più scemando, imbastardendosi con la lingua italiana e imbastardendola a sua volta.

Pur senza essere esplicitamente strutturato in episodi distinti, Invelle è organizzato in più “quadri”, con tre piccole storie che si intrecciano con la Grande Storia di tre eventi cruciali – temporalmente successivi – del secolo breve. E in ciascuna storia è una giovane vita a fare, in un qualche modo, da guida: Zelinda, dapprima, Assunta, poi, e – infine – Icaro. Il trait d’union delle vicende narrate è il mondo contadino, con le sue trasformazioni irreversibili e, soprattutto, le torsioni a cui è stato costretto dalla storia. A farsene portavoce silenziosi sono i tre bambini e, insieme a loro, un semplice fazzoletto rosso per coprire il capo – uno dei pochi punti di colore del film insieme ad alcuni vestiti di carnevale – che attraversa il racconto appartenendo a Zelinda bambina, madre, nonna.

Vediamo la vita di Zelinda, quindi, travolta dalla morte della madre mentre infuria la Grande Guerra, dalla quale il padre torna da mero sopravvissuto. E così è, seppur in modo diverso, per Assunta – figlia di Zelinda – bambina durante il secondo conflitto mondiale e l’imperversare della guerra civile fra i partigiani e le milizie fasciste. Solo l’innata resilienza di un mondo abituato a resistere e soffrire permette a una civiltà contadina sempre più aggredita dalla modernità, di sopravvivere all’ennesima carneficina fisica e morale. Sarà Icaro negli anni settanta del Novecento a poter finalmente studiare come non aveva potuto fare, nonostante lo desiderasse, nonna Zelinda. È l’ultima tappa del viaggio di uscita – in parte forzoso e in parte volontario – dalla cultura e dalle regole del mondo rurale, a cui Icaro è rinfacciato con disprezzo di appartenere, nonostante tutto.

Invelle esce in sala quasi in contemporanea a Linda e il pollo, scritto e diretto da Chiara Malta e Sébastien Laudenbach. Il confronto fra le due opere e le relative tecniche di animazione, profondamente differenti, sorge spontaneo: solo tavole in un (letteralmente) vibrante bianco e nero con le rare macchie di colore già citate – nel primo caso – e un’esplosione quasi infantile di colori singoli e saturi, nel secondo. Altrettanto diversa è la collocazione temporale delle due storie, nel passato – come detto – per Invelle e nel pieno presente per Linda e il pollo. Le due produzioni sono forse non raffrontabili, ma ci piace – per concludere – affiancare fra loro due opere lontanissime dall’animazione mainstream per ragazzi: la prima, è una vicenda per adulti utile anche per un pubblico più giovane, che attraverso la sua visione può avvicinarsi al nostro passato relativamente recente, mentre la seconda è una storia dai tratti infantili che non si rivolge, però, ai soli bambini. Ad accomunarle è la scelta del punto di vista dell’infanzia: negata, soprattutto nei primi due “quadri” di Invelle a causa delle condizioni storiche, e difficoltosa in Linda e il pollo, per il lutto subito dalla protagonista. Pessimista sulle possibilità di riscatto è l’opera di Simone Massi, mentre più ottimista su un possibile futuro di integrazione è il film di Chiara Malta e Sébastien Laudenbach, già recensito con una “breve” della rubrica Cinecritici in occasione del Torino Film Festival del 2023.

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