Regia: Damiano e Fabio D’Innocenzo
Anno: 2024
Produzione: Italia
una recensione a cura di Elena Pacca
Il cinema dei fratelli D’Innocenzo è un cinema generoso. Restituisce qualcosa a chiunque. Si frantuma in mille frammenti per poi ricomporsi in un’unicità che non è solo fatta di stile ma di scelte che violano il determinismo e si scindono in possibilità che possono albergare in ciascuno di noi. Il loro cinema è egoisticamente loro e altruisticamente nostro.
La grandezza di un’artista, regista, scrittore, musicista è di non essere sempre all’altezza di se stessi. Di concedersi la pausa, il tentennamento, quando non addirittura il fallimento. Che non vuol dire esplorare strade sempre nuove per la paura di bagnarsi nello stesso fiume, ma uscire dai binari della propria zona di conforto, per quanto non confortevole possa essere (ed oggettivamente è), quella cui ci hanno abituato con La Terra dell’abbastanza, Favolacce e America Latina.
Evitano la trappola del manierismo con una deviazione di percorso e di scrittura: la serialità e la durata contro la giusta brevità dei 90 minuti cinematografici, il tempo perfetto di una partita di calcio. Per brevità diremo che si tratta di una crime story. Ci sono i delitti, c’è la polizia, c’è il poliziotto protagonista, il giovane poliziotto che gli si contrappone, c’è la figlia del poliziotto. C’è un’ambientazione che ci sembra una foto della più profonda e desolata provincia americana, il lontano da dove che è lontano da tutto. Soprattutto da ogni possibile forma di quello che chiamiamo vivere civile con regole, rispetto e apparente serenità. C’è uno strano corpo di polizia con delle strane divise a metà fra un immaginario da paesi dell’Est e un fumetto scritto dalle sorelle di Giussani. Ma non siamo né a Bucarest, né a Ghenf o a Clerville.
Vomito viscere piscio sangue. Un film corporeo e umorale quanto basta. Noi osserviamo per un attimo Enzo Vitello/Filippo Timi da dietro. Siamo alle sue spalle. Lo spiamo. Intuiamo che ci sia qualcosa che non va, ma non siamo ancora a conoscenza della profondità di quell’abisso, della mostruosità di quel dolore. Siamo debitamente attoniti quando lo scopriremo. Quando i pugni ripetuti sulla sua schiena saranno le carezze mai ricevute (e mai date) e sapremo perché. Nemmeno entrare dentro di lui, grazie a una colonscopia, ci illuminerà.
Al cinema dei fratelli D’Innocenzo non si è mai pronti. E questo è un bene. A dispetto del titolo, e della forma epistolare con il quale l’assassino si congeda dalle sue vittime, contano i fatti più che le parole. È un film di azioni e inazioni, di movimenti, di gesti, di sguardi, di persone che faticano a stare ferme nel posto in cui stanno, a meno di autorecludersi.
Una carrellata di fotogrammi che insistono sul sedimentato, sull’ancestrale e sul richiamo che esercitano in ciascuno di noi. E allora scorrono la tuta adidas gialla/Kill Bill, l’amplesso nymphomaniacale, lo sguardo disperato e fisso di Ambra/Carlotta Gamba che pare figlia di quella Sandrine Bonnaire di Sans toit ni loi di Agnès Varda. E poi le immagini ravvicinate, crude, della casa e del padre, della madre e della figlia che sono stati ammazzati, come di un macabro asettico reportage da reperto di polizia scientifica che sanno di Truman Capote.
Non basta vedere il dolore. Noi siamo quel dolore. Ci prendiamo in carico quel male succhiando come da una ferita di vipera il veleno per cercare di estirparlo dal corpo filmico che ci sovrasta. E inevitabilmente un po’ di quel veleno, di quel male resta. E inevitabile. Ma è la dose antidoto. Quella che ti permette di sopravvivere.
Senza entrare in pratiche divinatorie, i gemelli Fabio e Damiano D’Innocenzo rappresentano in misura perfettamente aderente, la cosiddetta tipicità dell’essere cancerino – nati il 14 luglio, danno i natali alla protagonista esattamente un giorno prima – con l’ossessione quasi inderogabile con cui riportano sullo schermo elementi archetipici del segno: l’acqua, la casa, la memoria.
Senza nulla rivelare il punto di svolta, succede che c’è uno strappo. Uno dei tanti prima/dopo me più decisivo, irreversibile, tra la vita fino a quel momento e quella che sarà da lì in poi. Enzo Vitello stacca malamente, furiosamente i fogli dalle pareti, pronto ad affrontare la sua pagina bianca e a riscrivere un’altra storia.
Bella la fotografia che riverbera tra Luigi Ghirri e Martin Parr, connotando la geografia cromatica ed esistenziale sintonizzandosi sugli stati d’animo che si susseguono impetuosi soccombendo o riemergendo per respirare nell’apparente lentezza in cui nulla accade, perché è già accaduto, fra strade, distributori, campagne, architetture abbandonate.
Non insegnano, non vogliono dimostrare. Semplicemente ti fanno entrare in un mondo, il loro mondo. Che è come togliere una patina e vedere cosa c’è sotto. Sedimentato da troppo tempo. Ti fanno vedere cosa c’è nel sottosuolo. Che è il loro, quello dei personaggi che si muovono per e con loro. Ed è il nostro. Ci si può riconoscere, ci si può affrancare; se si resta piatti, adesi come un encefalogramma che attraversa il monitor lineare continuo da parte a parte, allora ci si dovrebbe preoccupare. Che il male esista è fin troppo risaputo. Che possa essere efferato anche. Così che possa essere banale. Che possa essere compreso, benvoluto, accarezzato è cosa più difficile, più rischiosa, più compromettente. Ma quello è il compromesso scenico a cui richiedono di accedere come una tacita regola di ingaggio che avviene mentre si acquista il biglietto e ci si siede in sala. Chi ha paura resta fuori. O si alza.
Ti portano alle soglie dell’abisso. E ti fanno entrare. Ti spingono dentro. Ma non si chiamano fuori. Ti accompagnano. Loro sono insieme Virgilio e Beatrice. Quel viaggio nel buio nel cuore di tenebra di ciascuno lo fanno con te. Non ti lasciano solo. E ci sono fino alla fine. Quando non sono le stelle. Ma un fiume – di nuovo l’acqua – che viene percorso in senso inverso rispetto a quello iniziale. Un percorso a ritroso. Forse non sarà mai possibile bagnarsi nello stesso fiume, perché tutto scorre, e l’acqua, insieme al tempo, di più. Ma si possono poggiare i piedi sugli stessi ciottoli, riconoscere un’ansa pur nel cambio di prospettiva, ritrovare un po’ di quei passi che sembravano perduti ma che il solo fatto di averli fatti ce li fa ritrovare mutuati dal dolore che abbiamo attraversato. Manco in penombra, ma spesso, in completa oscurità.
[Bonus track: L’Aquila, Bruno Lauzi – Dove arriva quel cespuglio, Lucio Battisti – Pezzi di Vetro, Francesco De Gregori]
Il fiume va
Guardo più in là
Un’automobile corre
E lascia dietro sé
Del fumo grigio e me
E questo verde mondo
Indifferente perché
Da troppo tempo ormai
Apre le braccia a nessuno
Come me che ho bisogno
Di qualche cosa di più
Che non puoi darmi tu
Un’auto che va
Basta già a farmi chiedere se io vivo
[L’Aquila – Bruno Lauzi]
Dove arriva quel cespuglio, la cucina
Che avrà il sole di mattina
Dove adesso è il mio berretto
Lì la camera da letto
E in direzione dello stagno
Costruiremo il nostro bagno
Entra pure, è la tua casa
La tua casa fra le rose
Ora appena prendo il mese
Il primo muro, la tua casa, te lo giuro
[Dove arriva quel cespuglio – Lucio Battisti]
L’uomo che cammina sui pezzi di vetro
Dicono ha due anime e un sesso
Di ramo duro il cuore
[…]
E nelle pieghe della mano
Una linea che gira e lui risponde serio “è mia”
Sottintende la vita
E la fine del discorso la conosci già
Era acqua corrente un po’ di tempo fa
E ora si è fermata qua
Non conosce paura l’uomo che salta
E vince sui vetri e spezza bottiglie
E ride e sorride
Perché ferirsi non è possibile
Morire meno che mai e poi mai…
[Pezzi di vetro – Francesco De Gregori]